martedì 13 dicembre 2011

Io vi saluto e (non) vado in Abissinia

Era un'ala imprendibile, tanto che riuscì a dribblare, in successione, il servizio militare, il regime e forse anche l'invio sul fronte africano. Enrique (Enrico) Guaita (Nogaya, 15 luglio 1910 - Bahia Blanca, 18 maggio 1959) è stato uno dei più grandi giocatori del periodo compreso fra le due guerre, e un cannoniere straordinario: il suo record di 28 reti in 29 partite, stabilito nel 1934-35 rappresenta il primato tuttora imbattuto di gol segnati nella A a 16 squadre e la media-reti più alta (0.965) per quel tipo di girone unico. Di famiglia povera, comincia negli Estudiantes La Plata e a 17 anni segna una tripletta all'Independiente. Nel 1933 tale Nicola Lombardo, dirigente della Roma, inviato in Argentina per uno scouting, lo nota e lo consiglia al presidente giallorosso Renato Sacerdoti. Per facilitare il suo ambientamento, la Roma acquista in blocco Guaita insieme al compagno di squadra Scopelli e per buona misura compera anche il centromediano del Racing, Stagnaro. Guaita ci mette un mesetto ad ambientarsi, poi esplode, il 24 settembre 1933, con una doppietta alla Fiorentina, e subito viene adocchiato da Vittorio Pozzo, che ne ottiene immediatamente l'italianizzazione come oriundo. Piccolo, ma (in prospettiva) significativo particolare: per essere considerati italiani, gli oriundi devono (non necessariamente subito) espletare gli obblighi di leva. A Guaita nessuno mette fretta: intanto esordisce in azzurro nel 4-2 contro l'Austria dell'11 febbraio 1934 e segna subito due gol. In estate è Campione del Mondo con la squadra azzurra, e nella finale con la Cecoslovacchia è suo l'assist per il gol decisivo di Schiavio. Guaita è all'apice della carriera: non molto alto, tozzo e taurino ma rapido e agile, ha un tiro forte e preciso che lo rende lo spauracchio dei portieri italiani. Il tecnico Barbesino lo sposta da ala a centravanti di manovra e nel 1934-35, nel campionato che la Roma chiude al quarto posto, è capocannoniere con i famosi 28 gol. La Roma in estate si rinforza con il terzino Monzeglio e l'ala Cattaneo e con la Juve che ha finito il suo quinquennio d'oro è la favorita degli analisti per lo scudetto 1936. Ma nella fascistissima Italia la Roma desta qualche imbarazzo: forse perchè il presidente Sacerdoti è ebreo, e ha pure qualche simpatia per la sinistra. Orrore. Una virile e pugnace campagna di stampa ne provoca le dimissioni, ma pur cedendo la presidenza a Vittorio Scialoja, Sacerdoti mantiene la proprietà dei giallorossi, il che procura alla squadra qualche antipatia.
Prima conseguenza di questa antipatia è il fatto che qualcuno, al Ministero della Difesa, si ricorda che i tre oriundi della Roma, Guaita, Stagnaro e Scopelli, devono ancora espletare il servizio militare. Li si chiami dunque alla visita di leva!  I tre sostengono la visita il 19 settembre 1935, e escono dalla caserma di via Paolina abili e arruolati. Ma Guaita è pallidino. Il medico militare, non si sa se per spaventarlo o per fargli una confidenza, gli ha sussurrato che qualcuno, che non vede di buon occhio la Roma, avrebbe intenzione di inserirli nelle liste dei precettabili in vista di una possibile operazione militare in Africa, per la precisione in Abissinia.
Sarà quel sussurro, sarà il fatto che tutti e tre scoprono di essere stati inseriti nel corpo dei Bersaglieri, saranno i giornali che in quei giorni molto insistono sulla "Questione etiopica", ma i tre oriundi non sono tranquilli. Quando salgono sul taxi dove li attende il ds romanista Biancone, Stagnaro (il più modesto dei tre per qualità tecniche) chiede il permesso di essere accompagnato al consolato argentino, per consultarsi su come scongiurare il rischio di finire sotto le armi. Biancone è d'accordo e lascia i tre davanti al consolato, raccomandandosi di non far tardi all'allenamento del pomeriggio. Dove però nessuno di loro si presenta. Si pensa siano ancora dal console, ma in serata una telefonata in sede riferisce che Guaita, Scopelli e Stagnaro, con rispettive consorti e una valigia ciascuno, sono stati visti salire su una grossa auto e partire a tutta velocità. Partono le ricerche e l'elegante Dilambda di Guaita viene ritrovata. Ma è tardi: l'auto è ferma a La Spezia, dove si appurerà che i fuggiaschi, saliti su un treno per Ventimiglia, hanno passato il confine di notte e poi dalla Francia si sono imbarcati per il Sudamerica. Immediata, parte la propaganda fascista: il Littoriale, su cui poche settimane prima era scritto "Guaita è il centravanti della nuova generazione, un vero fuoriclasse", ora ritratta e attacca: "Di pecore travestite da leoni domenicali non abbiamo bisogno, né crediamo opportuno continuare a nutrire serpi in seno. Siamo contenti di questo gesto come di una liberazione". Per sicurezza, i tre vengono accusati di traffico illecito di valuta, tanto per non farli tornare. E già che c'è la possibilità, il povero Sacerdoti viene coinvolto nell'inchiesta e viene inviato dal Duce "a fare un po' di vacanza al confino". La Roma, senza i tre oriundi, finirà il campionato seconda, a un punto dal Bologna: lecito pensare che quel torneo lo avrebbe potuto vincere.
Il povero Guaita, intanto, si è bruciato la carriera: in Argentina torna a giocare nel Racing, ma contestato dalla stampa che non gli perdona di avere difeso i colori dell'Italia, è costretto a lasciare il calcio a soli 29 anni. Diventerà direttore del penitenziario di Bahia Blanca, per poi ammalarsi e morire povero, in casa di amici, all'età di soli 49 anni. Ma con la soddisfazione di avere dribblato anche le camicie nere.

Nessun commento:

Posta un commento