lunedì 13 febbraio 2012

La Coppa d'Africa in riva allo Zambesi

La Coppa d'Africa si ferma sulle rive dello Zambesi. Avrebbe fatto piacere al dottor Livingstone, suppongo (dottor Livingstone e suppongo nella stessa frase stanno sempre bene), credo faccia piacere a tutti coloro che ritengono il calcio un bel gioco proprio perché non sempre vince il più forte. In questo caso ha vinto lo Zambia, e si tratta senza dubbio di un epilogo a sorpresa per una delle edizioni tecnicamente più povere degli ultimi quindici anni di calcio africano, ma tutto sommato è un finale in sintonia con l'andamento del torneo, che fin dalle qualificazioni ha perso per strada nazioni guida del movimento continentale, come Nigeria, Algeria, Egitto, Camerun, Sudafrica (e mettiamoci pure il Togo, che in fondo ai Mondiali c'è andato non molto tempo fa).
Situazioni come questa, davvero estemporanee, sono sempre il frutto di più fattori concomitanti: risultati a sorpresa, errori tecnici, carenze organizzative, ricambio generazionale. Così è stato anche in questa occasione, e avendo perso per strada anche Senegal e Marocco, presto eliminate nella fase a gironi, la manifestazione è arrivata al momento topico delle semifinali con quattro squadre: Mali, Ghana, Zambia e Costa d'Avorio, tutte provenienti dall'Africa Nera, quell'Africa Nera che non vinceva il torneo da ben quattro edizioni.
Si è visto un torneo bruttino (due partite, Zambia-Ghana e Gabon-Tunisia mi hanno fatto letteralmente addormentare: non mi succedeva dai tempi della Grecia 'behind the ball' di Otto Rehhagel), a tratti noioso, ma comunque ricco di spunti, sia giornalistici che tecnici.
Fiumi d'inchiostro sono corsi e scorreranno a sottolineare il fatto che lo Zambia ha vinto la sua prima Coppa d'Africa a Libreville, in Gabon, proprio laddove nel 1993 aveva perso, in un incidente aereo, la sua Nazionale più forte di tutti i tempi, quella dei vari Mwitwa, Chabala, Mutale, e così via. Una nazionale, per inciso, molto più forte di questa, pur vittoriosa.
Spiace, da un punto di vista personale, ma anche da amante sincero di questo sport, che sia svanita, forse, l'ultima occasione di vedere alzare un trofeo a Didier Drogba, giocatore sublime, dal talento cristallino, e esempio con le sue azioni di come un calciatore possa fare molto per il suo Paese e per un continente intero. La "golden generation" della Costa d'Avorio si avvia alla pensione (ci sono già i ricambi, ma salvo poche eccezioni, come Gervinho e Gradel, per citarne due, non mi sembrano dello stesso valore) senza aver vinto nemmeno la Coppa del Nonno. Capita: certo, m'sieur Didier ci ha messo del suo, se pensiamo al rigore sbagliato nella finale 2006 in Egitto (fu 0-0, poi gli egiziani vinsero ai rigori) e a quello sbagliato in questa, contro lo Zambia (ancora 0-0, ancora sconfitta ai rigori). Spiace dirlo, ma una delle differenze fra i grandi giocatori e i campioni sta proprio nel sangue freddo e nella capacità di decidere le partite quando se ne presenta l'opportunità.
Ha vinto lo Zambia, la nazionale di un Paese di 11.000.000 di abitanti, dove il 45% della popolazione ha meno di 15 anni e il 16,5% è sieropositivo, la nazionale di una nazione dove la speranza di vita alla nascita è di 40 anni e tre mesi. E mi basta leggere questi dati per essere contento al pensiero che, almeno per una notte, probabilmente per un giorno, forse per una settimana, un popolo che ogni giorno fa i conti con problemi così grandi avrà un motivo per sentirsi orgoglioso e felice.
Ha vinto lo Zambia, dei giocatori che cantano nenie tribali durante i rigori, e la vittoria porta la firma di un tecnico francese, Hervè Renard, che ha preferito la soddisfazione di insegnare calcio in Africa alla realtà, forse meno adatta a mettersi in vetrina, ma certo più soddisfacente economicamente, di una possibile panchina in D2 francese. Ha avuto ragione lui, portando sul gradino più alto una nazionale sconosciuta, con soltanto due giocatori già piazzati in Europa (Mayuka, 21 anni, allo Young Boys in Svizzera, e Lungu, 21 anni, all'Ural, in Russia), ma con tanti elementi che forse potrebbero far comodo anche a club di livello medioalto. Come il difensore Sunzu (1989, del Mazembe in Zaire), o il centrocampista Mulenga (1987, gioca nel Bloemfontein Celtic, in sudafrica). Il più bravo, però, a quanto pare è un ragazzino di 17 anni, Evans Kangwa: non ha giocato nemmeno un minuto, ma secondo gli esperti ha più talento degli altri 22 componenti la rosa messi insieme.
Ha vinto lo Zambia, hanno perso soprattutto Costa d'Avorio e Ghana. Degli ivoriani si è già detto: erano i più forti, e nei tempi regolamentari hanno avuto anche la palla per chiudere il conto, sbagliando un penalty con il loro uomo più rappresentativo. Si chiama paura di vincere, o anche "cagotto del perdente", fate voi. Il Ghana, invece, si è suicidato in semifinale, dimostrandosi squadra cicala, sprecando reti in quantità industriale in tutti gli incontri ad eliminazione diretta; per valori e talento individuale era la squadra più forte, e quando il più forte perde, può solo recitare il mea culpa.
Al di là delle facili retoriche sullo Zambia e sulla vittoria che onora, a distanza di anni, i morti dell'incidente di Libreville, il torneo disputato in Gabon e Guinea Equatoriale segna un momento di cambiamento nelle gerarchie del calcio africano e apre le porte a nuovi equilibri: che stia tornando il momento della Black Africa? Camerun e Nigeria stanno ricostruendo ma hanno giovani molto interessanti, anche lo Zambia ha un'età media molto bassa, gli stessi Ghana e Gabon, che costruiranno il futuro attorno a due coppie di fratelli (gli Ayew e gli Aubameyang, rispettivamente, e speriamo che crescano bene: dopo averli visti all'opera, direi che non è così scontato), possono dire la loro. Non è stato un torneo tecnicamente memorabile, ma potrebbe essere stato un torneo da ricordare.

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