domenica 17 febbraio 2013

Undici - Il mediano

Numero quattro. Nell'iconografia del calcio è quello dei mediani: uomini duri, gente rissosa con un cuore grande così, due polmoni che sembrano quattro, un livello di testosterone superiore alla media e una fedina penale calcistica (ma a volte non solo) lunga come l'elenco del telefono. Poche cose colpiscono il tifoso come la disponibilità a lottare per la propria maglia, anche al di là dei propri limiti tecnici, e forse è per questo che nell'elenco che segue ci sono tanti personaggi che sono stati idoli per i loro sostenitori e punti di riferimento negativi per i supporters avversari: amati e odiati, ma sempre in grado di suscitare sensazioni intense. Per farne undici, c'era l'imbarazzo della scelta, e ho dovuto lasciare fuori dalla lista molti mediani che avrebbero meritato di farne parte. Penso a Dunga, Rijkaard, Pari, Fernandez, Gattuso, Vieira, Alemao. Ma se vi sembra un peccato, è solo perchè dovete ancora leggere chi sono gli undici che ho scelto...

11 - William John "Billy" Bremner (1942-1997). "70 chili di filo spinato". Così lo definì un tabloid inglese, centrando in pieno la descrizione di un giocatore che, in trance agonistica, sapeva arrivare ben oltre quelli che sarebbero stati i suoi limiti fisici, un vero "hard man" di centrocampo (Vinnie Jones, non proprio una suorina, lo ha definito "My idol and my model"). Scozzese, alto solo 165 centimetri, si rivela nel Doncaster Rovers, ma scrive pagine di storia nei suoi 14 anni al Leeds United dove arriva nella stagione 1959-60 e rimane per 15 anni, legando il suo nome ad uno dei periodi d'oro del club. Al centenario del club è stato indicato come il più grande giocatore del Leeds di ogni epoca, ed inserito dalla FA nelle 100 leggende del campionato. Rissoso, irascibile e durissimo nei tackle, ha al suo attivo 54 presenze in nazionale scozzese (faceva parte dell'undici che battè nel 1967 l'Inghilterra campione del mondo), di cui fu capitano a Germania 1974.
Esce dalla 'tartan army' l'anno dopo, per il cosiddetto "Incidente di Copenaghen": dopo una partita, insieme ai compagni Willie Young, Joe Harper, Pat McCluskey e Artur Graham, entra in un night club e...ne viene estratto dalla polizia, dopo che i cinque, innescata una rissa, lo avevano letteralmente raso al suolo. Più avanti si scoprirà che della notte brava aveva fatto parte anche il ct scozzese, Ronald McKenzie, che infatti si dimetterà. Smette di giocare a 39 anni, nel 1981, e per 10 fa l'allenatore, guidando anche il suo adorato Leeds. Muore il 7 dicembre 1997 di attacco cardiaco. La settimana dopo, il 13, il Leeds gioca sul campo del Chelsea, e resta quasi subito in 9 per due espulsioni. Il pubblico gialloblù intona "We've got nine men and Billy", e la squadra tiene eroicamente lo 0-0. Davanti allo stadio di Elland Road c'è una sua statua, fra i canti tradizionali scozzesi c'è anche una ballata dedicata a lui...


10 - Paul Ince (1967). Il nome completo (Paul Emerson Carlyle) non sembra esattamente quello di un ruvido centrocampista di copertura. E forse è giusto così: Paul Ince è stato qualcosa di più. Basterebbe a ricordarlo il suo nomignolo: "The Governor", il governatore. Il centrocampo (dove giocava 'da 4' portando il numero 8) era il terreno dove imponeva la sua legge, che era quella di un mediano duro, ma leale. Irruento, spesso anche violento nei contrasti, ma (quasi) mai ispirato dal desiderio di far male all'avversario, e per buona misura dotato di qualità tecniche non disprezzabili. Cresce nel fertile vivaio del West Ham, ma nel 1989-'90 passa al Manchester United dove diventa giocatore di spessore internazionale. Memorabili le sue 'discussioni' con Alex Ferguson, che mettevano di fronte un allenatore che non tollerava chi metteva in discussione la sua autorità con un giocatore che la pensava esattamente allo stesso modo, ma dal proprio punto di vista. Il suo ex capitano Steve Bruce racconta che una volta, dopo essere stato pesantemente insultato dal tecnico mentre stava giocando una partita di Premier, Ince, fuori di sè per le parole di Ferguson, si ripresentò il giorno seguente agli allenamenti minacciando il tecnico con una pistola. Solo dopo mezzoretta si capì che era un modello ad aria compressa. Passa all'Inter nel 1995 e ci resta per due stagioni diventando, dopo un ambientamento difficile, l'idolo dei tifosi. Nonostante un'offerta migliorata di contratto, sceglie di rimpatriare per permettere a suo figlio Tom (all'epoca aveva 5 anni) di frequentare una scuola britannica. Gioca ancora per Liverpool, Middlesbrough e Wolverhampton prima di fare il player-manager allo Swindon inaugurando una nuova carriera, per ora avara di soddisfazioni. Tra i momenti più alti della sua carriera, questa bella foto sulla 'dentist drinking chair' scattata durante il ritiro della nazionale inglese per gli Europei 1996: Sua dichiarazione: "To be a real man you need to know how to love, how to fight and how to drink". Oggi si diverte con qualche spot per la tv e qualche comparsata autoironica. Aye aye, Gov'nor...


9 - Massimo Bonini (1959). Dalla Juvenes Dogana alla Juventus. Parabola sportiva insolita per l'unico giocatore di spessore internazionale mai nato a San Marino. In realtà i 'gemelli' del calcio sanmarinese erano due: Bonini e il trequartista Marco Macina, giocatore dalle smisurate qualità tecniche scomparse però dopo una comparsata a Bologna.
Dotato di corsa infinita, Bonini si costruisce pian piano una solida fama sulla riviera romagnola: dalla Juvenes passa al Bellaria, in D, dal Bellaria al Forlì, in C, poi al Cesena, in B, dove diventa un simbolo della squadra che agguanta la A nel 1980-81. Lo acquista la Juventus, dove Trapattoni, vedendolo un po' stranito, lo svezza affidandolo 24 ore al giorno a Furino, un'esperienza che ne tempra il carattere. Dopo un anno di apprendistato nel 1982-83 è pronto per giocare titolare al posto del maestro. Rispetto a Furino è meno ruvido, ma corre altrettanto e ha un miglior tocco di palla. Diventa l'ideale complemento di Michel Platini. Conosciutissimo l'aneddoto che lo vede protagonista nell'intervallo di un match tra Juve e Fiorentina: l'avvocato Agnelli scende in spogliatoio e vede Platinì intento a fumare: "Michel... ma come può un professionista mettersi a fumare fra primo e secondo tempo?". Risposta: "Tranquillo, Avvocato. L'importante è che non fumi Bonini". Vince tutto con la Juve, poi chiude con 4 stagioni a Bologna. In Nazionale non è altrettanto fortunato: quando arriva alla serie A, San Marino non è affiliata alla FIFA, e lui gioca 7 partite in U21. Poi è costretto allo stop da...Macina. Durante un torneo juniores a Montecarlo, infatti, la Spagna fa ricorso sostenendo che l'Italia non può far giocare un sanmarinese. A Bonini viene chiesto di rinunciare al passaporto del Titano, ma lui sceglie di non rinnegare le proprie origini e rinuncia all'azzurro. Farà a tempo a diventare il primo capitano della nazionale di San Marino. Oggi, invecchiato malino, passa il tempo come opinionista su alcune reti minori della Romagna.


8 - Roy Maurice Keane (1971). "Felicità è non temere nessuno". A giudicare da questa frase (che peraltro è sua), Roy Keane può considerarsi una persona felice. Forse non esattamente affabile, ma felice. Classico esemplare di ruvido mediano irlandese, Keane nasce nei pressi di Cork da una famiglia 'working class' e sin da giovane dà abbondantemente sfoggio delle sue caratteristiche distintive: testardaggine, aggressività, carisma. Comincia a giocare nel Cobh Ramblers, e nel 1990 passa al Nottingham Forest. Ci resta tre anni, disputa 64 partite e segna 22 gol. Colleziona anche espulsioni e squalifiche, fra cui una memorabile di 11 giornate nel 1992, per avere detto ad un arbitro che lo aveva ammonito: "Con me tua moglie è molto più gentile di te". Nella pausa estiva che precede la stagione 1993-94 passa al Manchester United, di cui diventerà capitano dopo l'addio di Cantona. Nella stagione 1997-98, in uno scontro di gioco con il norvegese Half-Inge Haaland, si rompe i legamenti. La strana dinamica induce l'avversario ad accusarlo di fingere di aver subito fallo per ottenere un rigore. La vendetta in casa Keane è un piatto che si gusta freddo e così, quando nel 2000-01 Keane incontra nuovamente il norvegese su un campo da calcio, negli ultimi minuti, facendolo inizialmente passare come un fallo involontario, alza la gamba sul ginocchio dell'avversario, e lo rompe chiudendogli la carriera. Prende 5 giornate di squalifica. Qualche anno dopo, nella sua autobiografia, confesserà di averlo fatto apposta: "Avevo aspettato abbastanza. L'ho colpito dannatamente forte. La palla era là (credo). Beccati questo str****. E non provare mai più a ghignarmi in faccia che sto simulando un infortunio".
All'Old Trafford miete trionfi fino al 2006, con 323 partite, 33 gol e la fascia di capitano. In Nazionale, colleziona 67 presenze, ma salta, clamorosamente, i Mondiali 2002, a causa di un furibondo litigio col suo tecnico Mick McCarthy: Keane spara a zero su allenatore, Federazione, scelte logistiche e caratura dei compagni di squadra; il tecnico, sentendo minacciata la sua leadership di fronte allo spogliatoio, lo manda a casa. Torna in Nazionale nel 2004, ma si ritira definitivamente nel 2006, dopo una parentesi al Celtic (qui un estratto del testimonial match). Da allenatore, compie un miracolo riportando il Sunderland in Premiership nel 2006-07, dopo averlo preso al 23° posto. La squadra però si stufa presto della sua grinta (chiamiamola così) e Keane lascia nel 2008. Una successiva esperienza all'Ipswich non lascia il segno. A differenza di quanto facevano i suoi tacchetti.


7 - Gabriele "Lele" Oriali (1952). Un mediano infaticabile, inesauribile nella corsa e nello spirito di sacrificio, rapido e generoso, ma anche (un caso quasi unico nel ruolo) correttissimo, anzi, spesso bersagliato dai falli degli avversari. Oriali nasce a Como e da ragazzo guadagna qualche lira facendo il garzone da un barbiere. Insapona i clienti, a volte li sbarba, senza mai incidenti (dite la verità: lo avreste dato in mano un rasoio a Furino?). Inizia a giocare al Cusano Milanino, che in quegli anni mette insieme una coppia di terzini mica male: uno è lui, l'altro Aldo Maldera. Tifa per la Juve, ma a 13 anni lo prende l'Inter, e inizia la trafila. Debutta da terzino nel 1970-71 e resta in nerazzurro 14 stagioni. Vince due scudetti (1970-71 e 1979-80), due Coppe Italia (1977-78 e 1981-82) e si trasforma in mediano (ruolo nel quale vincerà con la Nazionale i Mondiali di Spagna). In tutto, nell'Inter, mette insieme 392 partite e 42 gol, e in particolare, si segnala come giustiziere del Milan: 6 reti infatti le realizza nei derby (qui, qui e qui, ne vedete tre). Podista di centrocampo, come si diceva, colleziona interventi fallosi. Di questo, ad opera di Tassotti in una stracittadina, ci siamo già occupati qui. La compilation di calcioni che gli rifila Stielike nella finale dei Mondiali, invece, è un classico della Gialappa's (purtroppo introvabile in rete).
Nel 1983 lascia l'Inter e chiude carriera nella Fiorentina. Intraprende poi quella di dirigente, al Bologna e ancora all'Inter, dove però lascia con dissapori con la dirigenza (o meglio, con Marco Branca). Sposato con Delia, ha 4 figlie: Veronica, Valentina, Francesca e Federica, e ha ispirato una delle più note canzoni di Ligabue. Ma questa, forse, è l'unica cosa di Lele Oriali che sanno davvero tutti.

6 - Edgar Steven Davids (1973). Basta il soprannome: "Pitbull", a farne una leggenda. Ad appiopparglielo, in omaggio all'aggressività che metteva in campo, è nel 1991, sua stagione di esordio, il tecnico dell'Ajax Luis Van Gaal. 169 centimetri di corsa, forza fisica e cattiveria, Davids è un mastino che abbina alla quantità e alla grinta un tocco di palla non disprezzabile. Con l'Ajax vince l'UEFA nel 1991-92, battendo il Torino, e quindi la Champions' nel 1995, superando il Milan. L'anno dopo, fallisce il bis contro la Juve, fallendo anche un rigore nella serie finale. Passa al Milan, ma non si integra, e dopo essere stato definito "la mela marcia" nello spogliatoio, viene ceduto alla Juve per 9 miliardi. In Italia fino a quel momento non ha mai convinto e in più si è appena rotto una gamba: acquistarlo sembra una puntata alla roulette, ma Luciano Moggi fa saltare il banco. In bianconero Davids si trasforma e per 7 stagioni, fino al 2004, è una colonna in una squadra che vince praticamente tutto. In mezzo, due incidenti di percorso: un glaucoma, che lo obbliga a un'operazione e a giocare, da lì in avanti, coi classici occhiali, e il processo sportivo per uso di nandrolone del 2001 (dosi da cavallo: 8 nanogrammi rilevati, contro una soglia-limite di 0,5), che gli costa 5 mesi di stop per doping. Nel 2003 mostra i primi segni del declino e nel 2004, dopo un dissidio col tecnico Lippi, viene ceduto in prestito al Barcellona. In Spagna gioca al meglio delle sue possibilità e l'Inter gli offre un contratto per l'anno successivo, ma i nerazzurro delude così tanto che Moratti lo cede in lista gratuita al Tottenham Hotspurs. Torna all'Ajax, poi tira qualche calcio nel Crystal Palace e, dallo scorso ottobre, dopo due anni di inattività, torna a giocare, come player-manager, al Barnet, quarta serie inglese. La squadra, ultimissima al suo arrivo, si è già stabilizzata a metà classifica. Lui è bene avviato per stabilire un nuovo primato di espulsioni da allenatore.
In Nazionale, dopo aver totalizzato 74 presenze con l'Olanda (terzo ai Mondiali 1998), ha ottenuto dalla FIFA il permesso di giocare con la selezione del Suriname, con cui ha finora messo insieme 3 presenze.

 5 - Salvatore Bagni (1956). "Quel sacripante di Bagni" (la definizione è di Gianni Brera) nasce calcisticamente come attaccante di fascia. Quando comincia la sua avventura calcistica, prima nel Carpi, poi, nel 1977-78, al Perugia, è un'ala/tornante destro di buona corsa, notevole temperamento, dignitosi mezzi fisici e tecnica inferiore alla media. Tuttavia, la sua continuità di rendimento lo rende una pedina fondamentale nella miracolosa squadra che, sotto (o nonostante) la guida di Ilario Castagner, centra un clamoroso secondo posto senza sconfitte nel 1978-89. Bearzot, alla ricerca di un back-up per Causio, lo prova in Nazionale, ma non resta impressionato. lui intanto passa all'Inter, dove Rino Marchesi decide di cambiargli ruolo, trasformandolo in mediano.
Nel 1984-85 viene acquistato dal Napoli, che abbisogna di un elemento di interdizione per sostenere Maradona. Con la maglia degli azzurri la sua carriera tocca l'apice e Bagni si impone come uno dei centrocampisti di rottura più efficaci degli anni Ottanta. Oltre che dei meno simpatici ai tifosi avversari. Tocca a lui, fra l'altro, la responsabilità per la rottura del gemellaggio fra le tifoserie del Napoli e della Roma: il 25 ottobre 1987, durante Roma-Napoli, con gli azzurri sotto di un gol (Pruzzo al 46°) e in nove contro undici per le espulsioni di Careca e Renica, pareggiano con Francini, e Bagni, nel festeggiare il gol, rivolge una serie di gesti dell'ombrello ai tifosi romanisti assiepati in tribuna, originando anche una serie di incidenti.Resta sotto il Vesuvio per quattro anni, ed è fra i maggiori artefici dello storico 'doble' che scatena il tripudio dell'intera città nella stagione 1986-87 (Campionato e Coppa Italia). Nell'annata successiva, il Napoli subisce una chiacchierata rimonta da parte del Milan e Bagni, che a fine campionato è (insieme a Giordano, Garella e Ferrario) uno dei 'ribelli' che sfiduciano ufficialmente mister Ottavio Bianchi, viene allontanato.
Nell'estate seguente, subisce la legge di Luciano Moggi: dopo aver trovato un accordo col Bologna, si trasferisce in Emilia e svolge la preparazione con il gruppo, ma viene poi bloccato da alcuni cavilli legali riferiti al vecchio contratto col Napoli che ne invalidano il trasferimento. Li risolve solo a novembre, e l'unica squadra a volerlo è l'Avellino, dove chiude, abbastanza mestamente, la carriera nell'estate 1989.
Fuori dal campo, la vita gli riserva il tackle più cattivo: la morte in un incidente stradale del figlio Raffaele, ad appena tre anni, nel 1992. La salma del bambino, fra l'altro, sarà trafugata un anno dopo e a tutt'oggi non è mai stata ritrovata.
Dopo una parentesi da direttore sportivo, Bagni diventa commentatore televisivo e, nonostante un lessico oggettivamente molto limitato, viene anche prescelto per il ruolo di 'seconda voce' nelle partite della Nazionale accanto a Marco Civoli. Per citare il suo intercalare preferito da commentatore, "Incredibile, incredibile, veramente incredibile" che qualcuno con un vocabolario composto da non più di 20 parole possa commentare in successione, Euro 2008, Confederations 2009 e Mondiali 2010.

4 - Ulrich ("Uli") Stielike (1954). Anche l'odio è un'emozione. E partendo da questo assunto, direi che Stielike è sicuramente uno dei mediani che, nel corso della sua carriera, ha suscitato più emozioni da parte del pubblico di parte avversa. Un po' gobbino, un po' pelatino, baffuto, celava dietro un'apparenza da impiegato di banca una cattiveria degna di un inviato dell'inquisizione. Polemico e stizzoso, al limite dello sclerotico. Comincia nel 'Gladbach, con cui vince due campionati, ma tocca l'apice della carriera giocando davanti alla difesa (talvolta anche da libero) nel Real Madrid, di cui diventa un simbolo dal 1977 al 1985.
Spiace non aver trovato, in rete, filmati che lo raffigurano mentre, con la sua innata classe, protesta contro l'arbitro, contro il guardalinee, contro il capitano avversario.
Da un punto di vista puramente agonistico, ha confessato in una celebre intervista di avere sempre detestato squadre e giocatori italiani, da cui era, più o meno cordialmente, ricambiato. Durante Spagna 1982 sbaglia un rigore nella semifinale contro la Francia, scoppiando a piangere (qui ricorda l'episodio a partire dal minuto 6'), e con questo exploit diventa, al momento, l'unico tedesco ad aver mai sbagliato un penalty in una rassegna mondiale. In finale, martoria di falli Oriali (ne abbiamo già parlato) ed è uno degli ultimi ad arrendersi. Memorabile anche l'atteggiamento provocatorio con cui invita Bergomi (colpito in testa da una biglia) a rialzarsi durante un famoso Real-Inter di Coppa Uefa. In tre parole: un uomo simpatico.


3 - Giuseppe Furino (1946). "Capitan Furino, il più puro degli eroi / Capitan Furino, picchia duro anche per noi / Capitan Furino, una fascia al braccio ha / Capitan Furino, simbolo di autorità".
Basterebbe questa canzoncina, che la curva juventina gli dedicava nel 1981 sulle note di "Capitan Futuro", per tratteggiare questo piccolo ma caparbio e aggressivo mediano panormita che per vent'anni, dal 1965 al 1984 (con due parentesi in prestito, prima al Savona, poi al Palermo) si impone come simbolo della squadra più vincente d'Italia. Piuttosto limitato tecnicamente (ma non così tanto come è opinione comune), compensa con l'agonismo: il soprannome "Furia" rende l'idea. Famosa la sua frase: "Alla Juve non basta la classe, ci vogliono palle d'acciaio". In bianconero fu titolare inamovibile per oltre un decennio, conquistando otto scudetti (1971-1972, 1972-1973, 1974-1975, 1976-1977, 1977-1978, 1980-1981, 1981-1982, 1983-1984), due Coppe Italia (1978-1979, 1982-1983), una Coppa UEFA (1976-1977) e una Coppa delle Coppe (1983-1984). Visse in gran parte l'epopea del decennio vincente di Giovanni Trapattoni, col quale vinse cinque scudetti. Dopo anni di onorato servizio, paga un dualismo caratteriale con Platinì nella stagione 1982-83: lo liquida Gianni Agnelli in persona, in una celebre intervista: "Furino è un simbolo per tutti noi, ma non ho comprato Platinì perchè tutte le palle passino da Furino". Dalla partita dopo, gioca Bonini, e il francese decolla. Gioca ancora un anno, nella stagione 1983-84, entrando in campo solo nel finale dell'ultima gara contro l'Avellino per mettere la firma sul suo ottavo scudetto personale con la stessa maglia, ed eguaglia il record di Giovanni Ferrari. Per i tifosi juventini ancora oggi resta, se non proprio un modello di sportività, certamente un mito.

2 - Romeo Benetti (1949). Ah, Romeo, Romeo. Perchè é lui, Romeo Benetti, l'uomo che meglio ha simboleggiato, in Italia, le qualità del mediano. Spigoloso, ruvido, senza paura, si tempra in un'infanzia difficile (orfano di padre in tenera età, cresce in collegio) e impara a farsi rispettare. Arriva in serie A nel 1968. dopo una lunga gavetta con Bolzano, Siena, Taranto e Palermo; la Juve lo tiene solo un anno e lo cede alla Samp, da dove approda al Milan. I rossoneri lo notano nel confronto diretto: durante Samp-Milan risolve da par suo una mischia in area: contrasto, pallone portato via di forza e tre tackle vinti svellendo gli avversari: alle sue spalle restano a terra Trapattoni, Schnellinger e Rosato. Rocco in panchina dà di gomito ai suoi dirigenti: "Ciò, compremolo subito!". Al Milan resta molti anni, diventando un mito nel suo ruolo a protezione della difesa. Vince due Coppe Italia, un Coppa delle Coppe e veste la maglia della Nazionale, ma assurge alla celebrità soprattutto per il fallo che stronca la carriera del bolognese Liguori, per il quale viene anche denunciato alla Procura di Milano.
Nel 1976, quando ha passato la soglia dei 30 e sembra in parabola discendente, la Juve lo scambia con Capello e lo riporta a casa, facendogli formare, con Furino e Tardelli, un asse centrale scolpito nel marmo. Vince ancora due scudetti, una Coppa Uefa e disputa da protagonista i Mondiali 1978. Nel 1979-80 passa alla Roma per gli ultimi calci (agli avversari), naturalmente.
Fuori dal campo è uomo mite e riservato, alleva canarini e per anni cerca in tutti i modi di togliersi di dosso la fama di 'duro', anche partecipando a partite di beneficenza, come quella di cui abbiamo già raccontato qui. A un certo punto rinuncia, e oggi della sua rudezza ne fa un vanto: "Il punto è che ogni partita c'erano 11 giocatori che volevano picchiare Benetti. Ma le hanno sempre prese".
Ora, a 66 anni, tiene corsi per allenatori per conto della FIGC e vive in mezzo alla natura, in quel di Leivi, collina di Chiavari. In una recente intervista ha chiarito cosa gli piace maggiormente di quella zona: "Gli epitaffi. Qui i più giovani muoiono a 95 anni"..

1 - Leonel Alvàrez (1965). Basta il soprannome a farne un mito: per tutti in Colombia era "El Carnicero", il macellaio (per l'altro soprannome "El Putas", non è facile capirne l'origine, ma aiuta comunque a tratteggiare il personaggio). Ufficialmente questo 'apelido' nasce da due anni di apprendistato che il giovane Leonel giura e spergiura di avere svolto presso un macellaio di Remedios, sua città natale. Calcisticamente comincia con l'Independiente Medellin, passando poi nelle fila dell'Atletico Nacional e quindi dell'America di Cali, prima di cominciare l'avventura europea con il Valladolid, cui seguirà una carriera vissuta a cavallo fra Stati Uniti (Dallas Burn due volte, New England Revolutions) e madrepatria (ritorno all'America, poi Veracruz, Deportivo Pereira e Deportes Quindio. A renderlo famoso però, è il ruolo di 'volante' con la nazionale dove diventa il braccio armato di Carlos Valderrama. Il suo compito è concettualmente semplice ("El Pacho [Maturana, ndr] una volta mi disse: "gioca dieci metri dietro al Pibe, recupera tutti i palloni che ti passano vicino, se caso separandoli dall'avversario, e passali a lui". Era quello che facevo". In effetti, soprattutto la parte riguardante la separazione fisica tra pallone e avversario diventa la sua specialità. Duro come il granito, è il cemento e il filo spinato di una formazione che scrive per dieci anni pagine leggendarie dentro e (forse ancor più) fuori dal campo. In un gruppo formato da eccentrici (Valderrama), mediatori fra politica e narcos (Higuita), piccoli spacciatori (Estrada e Lozano), grassatori (Wilmer Cabrera), rapinatori a tempo perso (Herrera) e sbandati sociali più o meno recuperabili (Uzuriaga e Asprilla, per citarne due), Alvarez è uno dei più tranquilli. Quando non gioca, si dedica a passatempi più sedentari: suona il basso nel gruppo heavy metal "Carbure", e come anche Benetti, ama molto gli animali e allestisce in casa un piccolo allevamento. Di serpenti.
Nel 2010 torna alla ribalta nazionale partecipando (e vincendolo) al reality show "La Isla", equivalente colombiano (e quindi più trash) del nostro "L'Isola dei famosi", dove dimostra di essere ampiamente a suo agio nella jungla, fra ragni, rettili e zanzare. Nel 2011 gli viene affidata, anche grazie all'appoggio dell'amico Valderrama, la panchina della Nazionale, che guida con polso deciso e metodi picareschi, al punto da convincere la Federazione ad avvicendarlo dopo una sconfitta per 2-1 contro l'Argentina, che francamente non rappresenta proprio una "derrocha". La prende con filosofia, sfasciando lo studio del vicepresidente federale. Nonostante questo, nel suo Paese è un idolo per i bambini: misteri della società colombiana.

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