mercoledì 25 giugno 2014

Italia Anno Zero, analisi di una disfatta - 1. I giocatori

24 ore dopo la disfatta contro l'Uruguay, è tempo di guardarsi in faccia. Mentre i nostri giocatori attendono solo di salire sull'aereo del ritorno, il calcio italiano si scopre fragile e involuto, e dopo i processi sommari del post partita, è sperabile che nei prossimi giorni si possa arrivare a dare il via a una seria analisi di quanto è accaduto e a un dibattito costruttivo per valutare cosa fare per rilanciare davvero il nostro movimento calcistico.
Non uscivamo al primo turno in due Mondiali consecutivi dal quadriennio 1962-1966: Cile (decisivo il ko coi padroni di casa nella celebre "Battaglia di Santiago") e Inghilterra (con la epocale sconfitta contro la Corea dei "ridolini"). Dati alla mano, è un risultato terribile, che presumibilmente ci farà sprofondare fra le Nazionali di seconda fascia.
Ogni analisi parte da un attento esame delle cause del problema. La perdita di competitività del calcio italiano è un dato di fatto, ma come sempre capita laddove la vittoria ha molti padri, la sconfitta al massimo trova dei capri espiatori. Qui, di cose da approfondire, ce ne sono tante: da quelle tecniche e tattiche, che attengono all'allenatore e al suo staff (convocazioni, gestione del gruppo, strategie e schemi, condizione fisica), a quelle che potremmo definire strutturali (incidenza percentuale degli stranieri sul campionato, incidenza delle fatiche del campionato sulla condizione dei giocatori, ruolo e importanza dei mass media), fino a quelle la cui responsabilità ricade sulla Federazione (scarso peso politico che trova riflesso negli arbitraggi e non solo, livello di supporto del Commissario Tecnico, interazione con la squadra). Infine, ci sono le prospettive, anche qui tecniche e strutturali. 
Da dove cominciamo? Direi da chi in Brasile c'è andato e dal suo rendimento, parlando anzitutto dei calciatori

Tanti passaggi, poca corsa.
Non c'è dubbio che l'andamento complessivo del Mondiale sia stato pessimo. I paragoni col Sudafrica sembrano fuori ruolo: là a rappresentarci abbiamo mandato una squadra molto vecchia, ancora incentrata sui reduci del glorioso 2006, che si sperava potessero dare ancora qualcosa, ma la cui usura era ben nota. In questo caso, invece, la Nazionale è risultato di un processo di rifondazione non facile, che era però passato attraverso un secondo posto agli Europei (non possiamo ricordarcene solo quando ci fa comodo) e a mio modesto parere era lecito aspettarsi qualcosa di più. 
Sul campo, le cause del disastro sono a mio parere soprattutto due: lo scarso amalgama dei giocatori (sfociato in aperta spaccatura nelle dichiarazioni del dopo-Uruguay) e la deficitaria condizione fisica. Dell'amalgama parleremo dopo, quando arriverà il momento di valutare la gestione del gruppo: per quanto riguarda la condizione fisica, è evidente che i giocatori, nonostante un mese circa di preparazione premondiale, non hanno smaltito le tossine del campionato, e anzi sono apparsi nella maggior parte dei casi ulteriormente appesantiti. Contro l'Inghilterra, l'approccio avversario (riassumibile nel vecchio motto "kick and run") ha finito col diventare l'arma decisiva: l'Italia ha fatto correre il pallone, forse perchè aveva poco fiato per correre lei. Fatto sta che la palla non suda, e alla fine i nostri avversari sono passati di cottura. Quella vittoria è stata erroneamente interpretata come un successo tattico e strategico: abbiamo creduto di avere fatto stancare gli inglesi sfruttando la nostra superiorità tecnica. Vero solo in parte: abbiamo giocato con una fitta trama di passaggi (ancora oggi mentre scrivo l'Italia è la squadra del Mondiale che ha passato di più il pallone, e la quinta per passaggi riusciti nella metà campo avversaria) perchè non avevamo le energie per correre.
Questo è emerso con drammatica evidenza nella seconda partita, quella giocata contro il Costa Rica, in cui tutti i nostri giocatori hanno avuto sulla corsa risultati molto inferiori ai nostri avversari. 
Da cosa può dipendere questa situazione? Si è molto parlato di giocatori spremuti da una stagione stressante. In parte c'è del vero: Inghilterra, Spagna e Italia hanno tutte campionati a 20 squadre, hanno tutte corso poco e sono tutte uscite al primo turno. Ma in compenso la Francia, che ha anch'essa un torneo a 20, sta andando fortissimo. Probabilmente i francesi hanno smaltito meglio le tossine, o si sono meglio acclimatati. 
Questo forse è un particolare che vale la pena esplorare: l'Italia rispetto alle altre formazioni europee (unica eccezione la Spagna) aveva il vantaggio di avere già sperimentato il problema climatico, che è certamente un fattore di questi Mondiali. Fra l'altro, nella Confederations Cup dello scorso anno, i nostri giocatori avevano mostrato maggiore capacità di adattamento rispetto a questo torneo. Forti dei dati rilevati in quell'occasione, i nostri preparatori atletici (capeggiati, giusto ricordarlo, dal figlio del ct Prandelli, che aveva tutte le qualifiche necessarie per ricoprire quel ruolo, ma che adesso deve anche prendere la sua parte di responsabilità) ne hanno ricavato dati importanti che forse sono stati interpretati in maniera sbagliata: la famosa "Manhaus" fatta costruire a Coverciano avrebbe dovuto abituare i giocatori a correre in condizioni di afa estrema. Invece è finita con un'intervista in cui Thiago Motta, fra l'altro oriundo brasiliano, quindi l'unico dei nostri che in quello stesso clima ci era cresciuto, si è lamentato a gran voce del grande caldo. Non sarebbe stato meglio lavorare in un clima normale e scaricare i muscoli? L'Italia 1982 aveva molto beneficiato di un periodo al fresco a Vigo. Se le cose sarebbero migliorate con un ritiro 'di scarico' non lo sapremo mai, ma nutrire qualche dubbio è lecito.
Vale forse la pena fare un parallelo con un'altra spedizione mondiale ingloriosa, quella di Messico 1986. Un anno prima dei Mondiali, l'Italia fece una tourneè in Messico per prendere parte a un torneo cui presero parte anche l'Inghilterra e i padroni di casa. Ne ricavammo indicazioni sull'altura che ci misero in ansia (allora come oggi: siamo italiani, non bastano 28 anni per cambiare una mentalità che resiste da millenni) e che ci indussero a svolgere per l'anno successivo una preparazione che lo stesso Bearzot, onestamente, a posteriori dichiarò "non ottimale". In campo, si disse, avremmo dovuto abbassare il ritmo per risparmiare energie e non rischiare di scoppiare nel finale per colpa dell'aria rarefatta. Come finì, è noto: in compenso, i francesi, quel giorno a Città del Messico, correvano come avrebbero corso in pianura. E soprattutto, correvano più di noi.




(1 - continua. Prossimamente: la scelta del gruppo)


Nessun commento:

Posta un commento