lunedì 14 gennaio 2013

Undici - il fluidificante


Ruolo delicatissimo, perchè multidimensionale (per essere dei grandissimi bisogna saper coniugare qualità difensive e tempismo negli inserimenti in avanti, e magari insaporire l'insieme con qualche gol di tanto in tanto) non è un caso che quello del terzino fluidificante (destro, o più spesso sinistro, con la maglia numero 3) sia fra quelli che nella storia del calcio hanno avuto meno interpreti di altissimo livello. Un dato davvero singolare è che i migliori epigoni siano quasi tutti concentrati in tre nazioni: Italia, Brasile, Germania, con poche sporadiche eccezioni. Fra gli esclusi dall'elenco meritano sicuramente una citazione l'olandese Van Bronkhorst, giocatore di grande dinamismo, il francese (basco) Amoros, puntello d'eccezione del "carrè magique" degli anni Ottanta, il brasiliano Carlos Alberto, travolgente nelle sue avanzate. Gli esclusi più illustri della mia lista sono però sicuramente il teutonico Andreas Brehme, colonna dell'Inter dei record, cardine della nazionale tedesca, e il pendolino Cafù, inarrestabile motore laterale nella Roma dell'ultimo scudetto. Purtroppo, lo dice anche il titolo, undici devono essere e solo undici ne posso scegliere...




11 - Gianluca Zambrotta (1977). Primi calci nel Como, poi passa al Bari. In origine è una seconda punta di movimento, o in alternativa un esterno di centrocampo molto offensivo. Poi progressivamente arretra: prima tornante destro, poi, per un'intuizione di Trapattoni, difensore con licenza di avanzare, su ambo i lati. Da terzino di spinta diventa un grandissimo e firma da protagonista il Mondiale 2006 (partita epica contro la Germania). Nell'uno contro uno difensivo mantiene qualche pecca, ma le sue avanzate restano travolgenti. Dopo il Mondiale, mentre la sua Juve finisce in B, accetta la corte del Barcellona, per poi tornare in Italia nel Milan, dove vive un tramonto dorato. Ma il bandolero comincia a essere stanco e galoppa sempre meno. A fine contratto coi rossoneri vorrebbe tanto giocare un anno ancora, ma non trova ingaggi e palcoscenici adeguati. Mentre scrivo, ha cominciato ad allenarsi (senza contratto, per ora) col Como. Pare che dall'ultima apparizione in campo sia passato così tanto tempo che quando gli è arrivata la telefonata ci ha messo un intero pomeriggio per ricordarsi dove aveva messo quei maledetti scarpini...




10 - Giacinto Facchetti (1942 – 2006). Interisti, non vi offendete. Se lo piazzo decimo non è perchè la maglia era nerazzurra o perchè qualche telefonata a Bergamo e Pairetto la faceva anche lui (ammettiamolo). Non ho problemi ad ammettere che come giocatore è stato fra i primi due-tre interpreti del ruolo, ma semplicemente, non ho visto di lui che poche partite, e quasi tutte di quando ormai era in fase calante. Esempio di serietà sul campo, è uno dei pochi della spedizione 1974 a salvarsi nel bellissimo "Azzurro Tenebra" di Giovanni Arpino. Forse è esagerato dire che ha "inventato il ruolo", ma sicuramente è stato, in Italia, il primo vero terzino d'attacco. Da dirigente (anche presidente nel periodo in cui Moratti aveva deciso di rinunciare alle responsabilità del ruolo, non ai privilegi) è meno incisivo. I colleghi me ne parlano come di ottima persona, e allora temo che abbia finito per pagare all'eccesso il privilegio di essere bandiera: i vessilli, in fondo, devono stare al vento anche quando l'aria è pesante.




9 - Luigi De Agostini (1961). Dopo Catanzaro, Udinese e Verona, passa alla Juve dove gli tocca la responsabilità di sostituire sua maestà Cabrini. Da ex centrocampista, lo fa con quello che è il suo marchio di fabbrica: la serietà. Dopo il ritiro di Platinì, veste per una stagione anche la casacca numero 10, per evitare paragoni al tremebondo Magrin. Nel corso della sua carriera, ricopre tutti i ruoli, escluso quello del portiere, vestendo, dopo il bianconero, anche il nerazzurro dell'Inter, ancora il gialloblù del Verona e il granata della Reggiana. Chiude da centrale, con un ginocchio ballerino e il viso scavato di chi ha giocato un po' troppo a lungo, forse perchè giocare gli piaceva troppo. Da antologia la sua 'mossa trademark': la scivolata a uncino, con cui riusciva, in un capolavoro di coordinazione, a recuperare palla e rialzarsi in maniera fluida e quasi immediata. Nella storia, e nel mio personale empireo degli eroi, per il gol (di destro) alla Fiorentina che regala alla Juve di Zoff la Coppa Uefa 1990. Anche se poi, in verità, il gol l'ha fatto per tre quarti Mareggini. Tanto per gradire, ne farà uno quasi uguale, ancora di destro, ad Antonioli, qualche anno dopo...



8 - Stuart Pearce (1962). Nome in codice: "Psycho", per la sua abitudine di parlare da solo in campo e per la tendenza ad assumere, nei momenti di stress della partita, espressioni facciali francamente inquietanti. Terzino sinistro di buona tecnica, era lui per primo a mettere questa qualità in secondo piano rispetto al temperamento. Aveva il gusto del contrasto, del contatto fisico con l'avversario, anche se non di rado gli capitava di eccedere. La sua storia calcistica comincia nei campionati di non-league con il Wealdstone, dove viene notato da Bobby Gould che nel 1983 lo porta al Coventry. Dopo due anni con gli sky blues viene acquistato dal Nottingham Forest, ma evidentemente è lui il primo a non credere nel proprio futuro di calciatore visto che su un "matchday program" degli arcieri piazza una pubblicità per la sua attività part-time di elettricista. Al Forest finisce invece col restare ben 17 anni, con 401 presenze in campionato, gran parte delle quali da capitano. Nell'estate 1997 passa al Newcastle e a 35 anni la sua carriera sembra alla fine, ma giocherà invece ancora fino a 40, due anni coi bianconeri e poi ancora col West Ham e col Manchester City. Nel mezzo, 78 partite con la nazionale, condite dalla fascia di capitano dopo l'addio di Shilton. Proprio coi tre leoni, scrive un capitolo da libro cuore: ai Mondiali 1990 sbaglia infatti il rigore decisivo contro la Germania che nega agli inglesi la finalissima, ma sei anni dopo, negli Europei 1996 disputati in casa, coraggiosamente prende palla e trasforma il penalty che decide la sfida dei quarti di finale contro la Spagna. Da allenatore, guida fra l'altro la U21 inglese, l'Olimpica e, fra le dimissioni di Capello e l'insediamento di Hodgson, anche la nazionale maggiore. Con lo sguardo sempre spiritato.



7 - Claudio Ibrahim Vaz Leal 'Branco' (1964). Ricordo ancora l'estate 1986 e la Gazzetta dello Sport che annuncia: "Il Brescia si affida al sinistro di Dio". Il 'sinistro di Dio' era lui: Claudio Branco, esterno sinistro (all'epoca giocava un po' più avanti), prelevato dalla Fluminense. Alle sue volate il Brescia di Bruno Giorgi affidava molte delle sue chance di salvezza, e d'altra parte una squadra dove giocavano insieme Beccalossi, Sacchetti e Zoratto aveva un gran bisogno di qualcuno che corresse. 26 presenze e 3 gol non bastano a salvare le rondinelle, e Branco prosegue la sua carriera al Porto, diventando intanto titolare del Brasile, con cui vince la Còpa Amèrica nel 1989. Col sinistro è capace di vere e proprie magie su calcio piazzato, dove accoppia potenza e precisione. Della potenza se ne accorge suo malgrado Murdo McLeod, centrocampista a quattro ante della Scozia, che ferma con la faccia un suo tiro durante i Mondiali 1990, finendo all'ospedale con una commozione cerebrale (3 giorni di ricovero prima della dimissione). Della precisione invece se ne accorgono i tifosi del Genoa, che lo riporta in Italia per la stagione successiva: la curva lo elegge a idolo il 25 novembre, quando segna con una sassata su punizione il suo primo gol in rossoblù proprio nel derby con la Samp, che vincerà lo scudetto, ma intanto si inchina 2-1. Dopo il Genoa, una seconda parte di carriera da giramondo del calcio (Gremio, Corinthians, Fluminense, Flamengo, Internacional, Middlesbrough, Mogi Mirim, Metrostars, ancora Fluminense) che lo tiene sui campi fino a 36 anni. Corona la carriera con la vittoria ai Mondiali 1994: la stampa è contraria alla sua convocazione, ma cambia idea dopo questa prodezza, che vale la vittoria nella semifinale contro l'Olanda.



6 - Risto Kallaste (1971). Nel calciare il pallone non era granchè, ma questo terzino sinistro estone entra di diritto nel mito collettivo per le sue velleità di saltimbanco. Numero della casa, la rimessa laterale acrobatica con capriola: venghino signore e signori, più gente entra, più bestie si vedono. A ricordare ai posteri questo suo marchio di fabbrica ci sono diversi filmati (qui, contro la Dinamo Kiev, e qui, proprio contro la nostra nazionale, con un Pizzul che resta sbigottito quasi come l'ultima volta che gli avevano finito la grappa). Carriera tutta nel calcio minore, e per la prima parte tutta trascorsa nella stessa città: dal Lovid Tallin allo Sport Tallinn e quindi il passaggio alla squadra più prestigiosa di Estonia, il Flora Tallin. poi il trasferimento in Danimarca al Viborg, e il ritorno in patria, con Kuressaare e Kalju Nomme, quasi sempre accompagnato dal fratello gemello, Toomas, che pare fosse lievemente più bravo, ma che non sapendo fare la rimessa con capriola non è passato alla storia. Lascia nel 1996 a 35 anni: le forze sono nel pieno, ma una lussazione a una spalla gli impedisce di deliziare la folla con il suo unico pezzo di bravura. A mia memoria, resta l'unico giocatore ad aver lasciato il calcio per problemi agli arti superiori pur non essendo un portiere.



5 - Paul Breitner (1951). Personaggio sempre sopra le righe, studia pedagogia all'università quando di lui si accorge il Bayern Monaco, che lo ingaggia per la stagione 1970-71. Intellettuale e rivoluzionario, appoggia esplicitamente l'estrema sinistra, e si presenta alle interviste con in mano il "Libretto Rosso" di Mao. Da qui gli resta appiccicato uno dei suoi soprannomi: "Il Maoista"; l'altro, "Der Afro", deriva invece dalla particolare acconciatura. Terzino sinistro ma capace di calciare con entrambi i piedi, vince per tre anni consecutivi ('72,'73 e '74) il campionato tedesco, e nel '74 fa tripletta alzando al cielo anche la Coppa dei Campioni e la Coppa del Mondo (suo uno dei gol in finale con l'Olanda). Fa scalpore il suo trasferimento al Real Madrid, club notoriamente molto caro al caudillo Francisco Franco. In Spagna resta fino al '77 vincendo due campionati e la Copa del Generalissimo (ora Copa del Rey). Poi la moglie fa i capricci e vuole tornare in Germania, dove però nessuna squadra sembra potersi permettere il suo ingaggio; interviene però Gunther Mast, multimilionario sponsor dell'Eintracht Braunsweig, e proprietario della Jagermeister, che lo ingaggia. Ma il Braunsweig è una squadra di secondo piano, dove certi comportamenti da star non sono ben digeriti. A fine anno Breitner si accommiata in una famosa conferenza stampa dove dichiara: "Ich tue euch jetzt den Gefallen und gehe" ("Vi faccio un favore e me ne vado"). Torna al Bayern e prima di ritirarsi (lo farà nel 1983, a 32 anni), nel 1981 torna in Nazionale (dove era uscito nel 1975 per un litigio con Schon), richiamato dal nuovo Ct Jupp Derwall, ed è fra i protagonisti del Mondiale 1982, dove segna il gol tedesco nell'1-3 contro l'Italia: è uno dei 4 giocatori capaci di segnare in due finali mondiali (gli altri sono Pelè, Vavà e Zidane), e fra tutti l'unico difensore.



4 - Roberto Carlos Da Silva Rocha (1973). Un metro e sessantasette centimetri di potenza, tecnica e velocità. Chiamato così dal padre in omaggio all'omonimo cantante melodico, il nostro nasce in un piccolo villaggio del Brasile, Garca, dove cresce in povertà, aiutando la famiglia a sbarcare il lunario con il lavoro nei campi. Parallelamente però inizia a giocare e nel 1992 debutta alla Uniao Sao Joao, da dove passa al Palmeiras. Una serie di brillanti esibizioni nella Còpa Amèrica 1995 gli attirano le attenzioni della vecchia Europa: si fa avanti il Middlesbrough di Bryan Robson, ma la spunta l'Inter di Massimo Moratti, dove debutta con il suo marchio di fabbrica: gol su punizione contro il Vicenza. Qualche difficoltà in fase di ripiegamento non gli impedisce di diventare l'idolo dei tifosi, ma alla fine della stagione 1995-'96, i rapporti con mister Roy Hodgson si guastano proprio per le sue carenze in marcatura. Incredibilmente, Moratti lo svende al Real Madrid, di cui resta titolarissimo per undici stagioni. Con Capello allenatore, migliora moltissimo nella fase di non possesso: ("Come ho fatto a convincerlo a difendere? Bastava dirglielo", commenterà il trainer in una famosa intervista). Diventa leggenda al Tournoi de France con una punizione da 35 metri che supera le leggi della fisica e trafigge un Barthez che non riesce proprio a capacitarsi. Lascia il real nell'estate 2007 e imbocca il sunset boulevard: prima al Fenerbahce, poi in patria al Corinthians, infine si fa convincere dall'Anzhi a tentare l'avventura nel campionato russo. Vittima di episodi di razzismo, a seguito di un lancio di banane sul campo del Krylia Sovetov, lascia il campo per protesta. Terminata la carriera (con 125 presenze e 11 gol in Nazionale, dove ha vinto i Mondiali 2002) diventa direttore sportivo.



3 - Paolo Maldini (1968). Cominciamo subito col dire che se l'elenco facesse conto unicamente sulle qualità tecniche, allora sarebbe al primo posto. Solo il fatto che questa è una classifica emozionale lo relega sul terzo gradino. La storia del più grande terzino sinistro della storia è abbastanza nota: entra nel Milan a 10 anni, con un provino del settembre 1978, ne esce a 41 compiuti, nel 2009. In mezzo, c'è l'esordio in serie A a Udine, nel gennaio 1985, a 16 anni, con papà Cesare che in autostrada quasi esce di strada per l'emozione. C'è la prima in Europa, contro l'Auxerre, ci sono record forse ineguagliabili: primato assoluto di campionati di A con la stessa squadra (25), primato di presenze nel Milan (902), marcatore più veloce in una finale di Champions' League (52" con il Liverpool, nel 2005), unico calciatore insieme a Gento ad aver disputato 8 finali di Coppa Campioni/Champions, di cui 5 vinte, una meno dello spagnolo. Record di stracittadine milanesi: ha giocato 56 derby. In Nazionale 126 partite di cui 74 da capitano, con 7 gol: con un secondo e un terzo posto ai Mondiali e un secondo agli Europei, gli è mancato solo il grande acuto a livello di squadre Nazionali per completare una carriera leggendaria. La sua maglia numero 3 è stata ritirata dopo la sua ultima partita, Fiorentina-Milan del 31 maggio 2009. La settimana prima, contro la Roma, nell'addio a San Siro, mentre tutti, compresi i romanisti, gli dedicano una standing ovation, uno sparuto gruppo di ultras imbecilli gli rovina la festa con fischi, contestazioni e cori inneggianti a Franco Baresi: non gli avevano perdonato un'intervista molto critica sui gruppi di tifo organizzato.
Resta per il momento fuori dal calcio: ha rifiutato numerose proposte (fra cui una di Ancelotti come vice allenatore al PSG) ma non ha mai nascosto il proprio desiderio di lavorare per il Milan con qualche ruolo nell'area tecnica/dirigenziale. La società, però, non glielo ha mai offerto. Questione di stile.


2 - Hans Peter Briegel (1955). Immaginate un armadio a quattro ante con due gambe sotto. Avrete una buona approssimazione di che giocatore fosse Briegel. Muscolatissimo, quasi un culturista, deve la sua corporatura al decathlon, che pratica con risultati lusinghieri fino ai 18 anni. Poi, a 19, decide di cominciare con il calcio, al Kaiserslautern, dove con pazienza e ostinazione gli modellano i piedi quel tanto che basta per fare andare la palla più o meno nella giusta direzione. Il resto lo fa la sua strapotenza fisica, che gli vale uno dei suoi soprannomi: "der panzer" (gli altri erano "lo schiacciasassi" e "il decathleta"). Ben comprendendo di incutere un certo timore agli avversari, decide di estremizzare questo aspetto e comincia a giocare con magliette di una taglia più piccole rispetto alla sua, sotto le quali i suoi muscoli sembrano esplodere come quelli dell'incredibile Hulk. Vince Euro 1980 con la Germania, fallisce di poco il titolo mondiale due anni dopo, quindi nel 1984 passa al Verona, dove è una delle colonne del miracolo-scudetto. A 31 anni, completa la carriera con un biennio alla Sampdoria. Essendo un muscolare, lascia il calcio appena le forze cominciano a calare, a soli 33 anni. Intraprende la carriera di allenatore, nella quale si caratterizza come un giramondo, allenando fra le altre le nazionali di Bahrein (manca i Mondiali allo spareggio) e Albania. Un'icona della mia infanzia.
 
 
1 - Antonio Cabrini (1957). Antonio Cabrini da Cremona ha sbagliato una sola cosa nella sua carriera di calciatore: l'anno di nascita. Fosse in attività oggi, sarebbe un fenomeno da jet-set: facile immaginarlo su tutte le copertine, in tutti gli spot. In un certo modo, personaggio da tabloid lo è stato ugualmente, anche se gli anni Settanta e Ottanta erano altra epoca. Gli cuciono addosso un soprannome, il Bell'Antonio, che ad altri avrebbe probabilmente rovinato la carriera. Lui, esempio di serietà, gioca 13 anni nella Juve, dal 1976 al 1989, vincendo anche sei scudetti, tutte le coppe europee, due coppe Italia, un'Intercontinentale. In Nazionale, la vittoria al Mondiale 1982 (con rigore sbagliato in finale) e il rammarico per un rigore non concesso nella semifinale contro il Belgio a Euro 1980, che lo ha privato dell'opportunità di diventare l'unico giocatore ad aver vinto tutti i trofei sia col club che in azzurro. Terzino meno totale rispetto a Paolo Maldini, era però fortissimo in proiezione offensiva, come testimoniano i tanti gol realizzati in serie A (ben 38 in 412 partite). Lascia la Juve nell'estate 1989, con il commovente saluto dei tifosi, e l'amarezza di chi vorrebbe restare ma non se la sente di ingrigire in panchina e si concede due stagioni di buon livello (ma con la pancetta) con il Bologna, prima del passo d'addio. Calcisticamente, è sempre stato uno dei miei preferiti, ma lo considero un idolo assoluto a partire dalla partita con il Panathinaikos (Coppa Uefa 1987). Una Juventus mediocre, già battuta 1-0 ad Atene da un gol di Saravakos, non riesce a ribaltare il risultato a Torino: i greci anzi vanno anche in vantaggio due volte, ancora con Saravakos e quindi con Dimopoulos, ma Cabrini, con due gol, un assist, un palo e una prestazione leonina vince praticamente da solo quella partita. Purtroppo, il 3-2 qualifica i greci.
Lasciato il calcio giocato, accoppia a una carriera da allenatore di livello buono ma non eccelso (Arezzo, Crotone, Pisa, Novara, Nazionale della Siria), alcuni exploit extracalcistici: una partecipazione a "L'isola dei famosi", un libro giallo di buon livello, "Ricatto perfetto", una candidatura in politica con L'Italia dei Valori. Dal 2012 allena la Nazionale femminile: inevitabili le battute alla presentazione. Anche se ha già dichiarato più volte di patire molto l'avanzare dell'età, il Bell'Antonio colpisce ancora.


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