giovedì 13 dicembre 2012

La morte di Tito fa piangere uno stadio

Spalato, è la sera del 4 maggio 1980. L'undici locale dell'Hajduk, squadra nata nel 1911 come emanazione sportiva degli indipendentisti cattolici croati, in quella che era considerata la città più cattolica e di destra dell'intera ex Jugoslavia, si prepara ad affrontare la Stella Rossa Belgrado, formazione legata a doppio filo al partito comunista. In altri momenti sarebbe una sfida infuocata, in campo e sugli spalti; quella sera, invece, piangono tutti: i cattolici insieme ai comunisti, i 35.000 sugli spalti insieme ai giocatori in campo, all'arbitro, ai fotografi.
Il video ci mostra le due squadre in piedi, a centrocampo: due file di visi provati, con espressioni che variano dal livido all'attonito; l'arbitro, il bosniaco Muharemagic, piange come una fontana, e non riesce a nascondere il suo dolore.
Poche ore prima, quella stessa mattina, in quella che oggi è la capitale della Slovenia, Lubljana, ha chiuso gli occhi per sempre Jozip Broz "Tito" (Kumrovec, Croazia, 7 maggio 1892; Lubljana, Slovenia, 4 maggio 1980), padre della patria, simbolo stesso della Jugoslavia, forse l'unico vero collante di una nazione che metteva insieme popoli diversi per lingua, religione, tradizioni, ideali.
Piangono in 35.000, piange un Paese intero. E' sempre così quando muore un uomo giusto, e tale era considerato unanimemente dal suo popolo il dittatore Tito. Ma forse in tanti piangono perchè hanno capito (lo spiegano anche qui, tanti anni dopo) che insieme a Tito anche qualcosa di molto più grande è giunto alla fine: la Jugoslavia stessa ha perso il suo punto di riferimento, anche se, in qualche modo, resterà unita per altri 12 anni, fino al 1992. Se le date valgono qualcosa, è giusto ricordare come il vero canto del cigno del calcio jugoslavo sarà nel 1991, con la vittoria in Coppa Campioni della Stella Rossa, squadra composta da giocatori nati e cresciuti prima della morte di Tito, e quindi ancora imbevuti di una cultura unitaria.
La vera forza di Tito fu quella di riuscire ad usare un'ideologia, anzichè per creare divisioni, per superarle: al di là delle visioni nazionalistiche, che sono il riflesso di un sostrato culturale ben più semplice; il motivo principale per cui oggi i vari Vidic, Modric, Dzeko, non giocano sotto la stessa nazionale, ma per selezioni diverse, è piuttosto elementare: Vidic è cristiano ortodosso, Modric è cattolico, Dzeko musulmano. Ai tempi di Tito sarebbero stati, semplicemente, tutti comunisti, o almeno si sarebbero riconosciuti in questa forma di comunanza ideale.
Una comunanza che, si badi bene, in molti casi era frutto di un transfer consapevole. Abbiamo detto di Spalato, città di destra, città cattolica, città la cui squadra, l'Hajduk, era espressione delle forze nazionaliste (e dunque, ai tempi di Tito, indipendentiste). Ebbene, mentre i giocatori sono al centro del campo, mentre l'arbitro Muharemagic piange come una fontana, i 35.000 dello stadio "Poljud" (costruito, fra l'altro, proprio per volere di Tito qualche anno prima), intonano spontaneamente l'inno "Друже Тито Ми Ти Се Кунемо" ("Compagno Tito ti giuriamo fedeltà"), una canzone comunista. Fatte le debite proporzioni, sarebbe come se al meeting di CL tutti i presenti, all'improvviso e - sottolineamolo - volontariamente, intonassero "Bella Ciao".
Dalle lacrime di Hajduk-Stella Rossa, alla guerriglia in campo di Dinamo Zagabria-Stella Rossa, da molti indicata come primo atto della tensione etnico-religiosa che porterà alla guerra civile e alla polverizzazione del Paese, passeranno appena 10 anni, gli ultimi 10 della Jugoslavia, ed è singolare come anche questa volta sarà il calcio a dare testimonianza del precipitare degli eventi.

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