mercoledì 28 novembre 2012

Undici - il terzino marcatore

Quasi sempre ruvidi come la carta vetrata, marcatori al limite della rozzezza, ma anche elementi dotati di notevole velocità di base, temperamento, e in qualche caso di forte carisma. Nel calcio 'di una volta', quello con le maglie dall'1 all'11 il numero due spettava al terzino marcatore, destinato a prendersi cura di una delle due punte avversarie, o dell'ala. Oggi, con il lento mutare del ruolo, i compiti fra i due terzini (anzi, laterali bassi, come si dice adesso, nemmeno fossero dei nani) non sono più così differenziati e su entrambe le fasce è richiesto un lavoro di interdizione e rilancio, condito, in qualche caso, anche da puntate in zona-gol. La distinzione fra terzini più difensivi o più portati ad appoggiare la manovra, però, viene utile per distinguere i protagonisti di questo post.
Diciamo subito che fra tutti i ruoli è forse quello che meno di tutti suscita emozione, ma per fortuna in questi anni ho fatto a tempo a vedere all'opera diverse significative eccezioni. Brevemente, una citazione per chi è fuori dal mio elenco personale. Su tutti, mi spiace particolarmente avere escluso il brasiliano Josimar: a Messico '86, contro la Polonia, fece una partita di livello disumano...ma per quanto riguarda i filmati che ho visto, fu anche l'unica. Nell'elenco non c'è Ciro Ferrara, un po' troppo 'paraculo', e non c'è la roccia Burgnich, perchè nei nastri che ho visionato ha, purtroppo, già imboccato la parabola discendente. Ho bei ricordi del ruvido Dan Petrescu, dell'elegante Roland Nilsson, del silenzioso Grun, e del picchiatore spagnolo Camacho. Che per inciso, se non fosse stato spagnolo, avrei anche inserito negli 11.


11- Javier Zanetti (1973) - Oltre 1000 partite giocate in carriera fra i professionisti (and still counting, direbbero gli inglesi), più di quelle che un uomo normale riesce a vedere nel corso della propria vita. Dal Tallerès Cordoba al Banfield e quindi all'Inter, dove arriva giovanissimo nel 1993 e diventa una bandiera, battendo ogni record. Oltre 800 gare nell'Inter, 145 con la "Blanquiceleste", 14 stagioni da capitano, sempre impeccabile, sempre pettinato, sempre giovane. Il soprannome da ragazzino era "Pupi", poi diventato "El tractòr", in omaggio alla sua forza muscolare, che per tanti anni è stata alla base di alcune discese irresistibili palla al piede. Leggendario. Certo, è una leggenda interista, ma come diceva Jack Lemmon in "A qualcuno piace caldo, «nessuno è perfetto».



10 - Giuseppe Bergomi (1963) - Esordisce in serie A nel 1981, a Como: ha 18 anni, ma di lì a poco, facendosi crescere i baffi, finisce col dimostrarne almeno dieci di più. Basta per cucirgli addosso un soprannome, "Lo Zio", che diventa un marchio di fabbrica. Scartato in giovane età, e per ben due volte, dal Milan, per presunti problemi fisici, diventa una bandiera dell'Inter, suo unico club, dove resta fino al 1999 quando, appreso di non rientrare più nei piani di mister Marcello Lippi, preferisce appendere le scarpe al chiodo. In mezzo, 519 presenze in nerazzurro e 81 in Nazionale, dove gioca quattro mondiali (1982, 1986, 1990 e quindi, con clamoroso rientro, da libero, 1998). Francamente, visto che all'epoca aveva 31 anni e che della spedizione faceva parte Roberto Mussi, viene il dubbio che con un ct diverso da Sacchi ne avrebbe giocati 5. Scaricato da Moratti, che rifiuta di assegnargli incarichi tecnici o dirigenziali in seno alla società, si dà alle telecronache. Decisamente meglio ieri come giocatore, che oggi come commentatore Sky.


9 - Mauro Tassotti (1960) - Parlando di elementi "ruvidi come carta vetrata", eccone uno di grana davvero grossa. Elemento cardine della difesa probabilmente più forte degli ultimi 25 anni, quella del Milan dove affiancava Costacurta, Baresi e Maldini, di quella leggendaria linea a quattro era sicuramente l'elemento di minor tasso tecnico. Tuttavia, le sue doti in marcatura, la sua determinazione e la capacità, all'occorrenza, di ricorrere anche alle maniere forti, gli hanno consentito di costruire una carriera che ha toccato il picco proprio a cavallo dei 30 anni.
Esordisce in nazionale a 32, e esce dai ranghi ai quarti di finale dei Mondiali 1994, dopo un fallo da codice penale con cui ridefinisce su nuovi canoni i lineamenti facciali di Luis Henrique (la prova tv gli consegna una maxisqualifica da otto giornate, record dei Campionati del Mondo). Nella sua lunga carriera, altre perle, fra cui un calcio da karateka rifilato a Lele Oriali durante un famoso derby di Milano (ce ne siamo già occupati qui). Molto amato dai tifosi rossoneri, che gli hanno tributato un commovente saluto all'annuncio dell'addio.


8 - Jorge Mario Olguin (1952) - Esimio esemplare di metodico picchiatore sudamericano, ha vinto sei campionati argentini, con San Lorenzo, Independiente, Argentinos Jr, una Copa Interamericana, una Libertadores. Con la nazionale 60 presenze e due mondiali da protagonista, nel 1978 e 1982. Nel post-carriera non ha mai smesso di occuparsi di calcio come osservatore e tecnico di base; impegnato politicamente, ha più volte preso posizione sulla tragedia dei desaparecidos. Recentemente, in un'intervista radiofonica (con un po' di pazienza, potete ascoltarla qui), ha rivelato alcuni retroscena circa l'atmosfera interna al gruppo della nazionale biancoceleste nei giorni del Mondiale 82, fortemente turbata dagli echi della guerra per le Falkland. Da calciatore, non ha mai voluto tentare l'avventura europea, forse conscio del fatto che il suo calcio piuttosto picaresco non avrebbe attratto le simpatie degli arbitri del Vecchio Continente. 

 7 - Phil Neal (1951) - Icona del Liverpool, è nel calcio inglese è considerato "l'uomo inossidabile", avendo giocato per i "Reds" 417 partite di fila. In qualunque possibile condizione. Nel gennaio 1976 Roger Davis, centravanti del Derby County, lo sgomita su azione di calcio d'angolo, spaccandogli la mascella. Se la fa rimettere a posto sul campo (nella foto si vede che non è proprio in asse) e finisce la partita. Il medico gli ordina sei settimane di riposo, il suo manager Bob Paisley gli chiede se si sente di giocare la partita seguente. Indovinate a chi preferisce dare retta? Nel 1981, si rompe l'alluce sinistro, e gli vengono prescritte almeno 4 settimane senza giocare. Lui trasgredisce con una protezione in plastica e mettendosi una scarpa taglia 7 nel piede destro e una da 8 al piede sinistro. Capitano coraggioso o pazzo incosciente?

6 - Giuseppe Bruscolotti - "O pal'e fierro" (Il palo di ferro). Lo chiamavano così, sia per la straordinaria struttura fisica (181cm e 79kg densissimi di muscoli) sia per il particolare atteggiamento in marcatura, che lo vedeva spesso annullare l'avversario diretto ricorrendo a interventi di grande fisicità, in cui dava l'impressione, per l'appunto, che il giocatore fermato in tackle avesse sbattuto contro un palo di ferro. Per sedici anni, dal 1972 al 1988, uomo-simbolo del Napoli, di cui fu capitano per il primo scudetto, e di cui detiene ancora il record di presenze (387). Al giorno della grande festa ha intitolato il ristorante che ora possiede a Posillipo (10 maggio 1987), ma nel dopocalcio ha diversificato gli investimenti, aprendo anche un'agenzia Snai e una scuola calcio, inizialmente gestita insieme all'amico Maradona. Avrebbe forse meritato di vestire almeno una volta un altro azzurro, quello della Nazionale.

5 - Enrico Annoni (1966) -  Indimenticabile per la grinta, talvolta esasperata, per il look, un po' selvaggio, e per il soprannome che ne derivò: "Tarzan". Glielo cucirono addosso ai tempi del Torino (1990-1994) per quei capelli così, lunghi e disordinati. In quel Toro, Policano era "Rambo", lui divenne l'uomo venuto dalla giungla. Per ironia della sorte, i capelli li perse abbastanza presto; non la grinta, che lo ha accompagnato anche a Roma, nelle fila giallorosse, e poi al Celtic, in Scozia, dove il suo spirito agonistico ha trovato terreno ideale. Ruspante, due tombini al posto dei piedi, ma un cuore grande così: non certo un'espressione da elite del ruolo, e sicuramente non nei dieci terzini più forti di sempre, ma l'interpretazione che dava del ruolo era quella più "vera". Lascia tristemente nel 2001 quando, dopo aver provato ad aggregarsi prima alla Roma, poi al Ravenna, non trova nessuna squadra che gli offra un ingaggio. Oggi sfoga l'esuberanza correndo in moto, bandana in testa.

 4 - Moreno Torricelli (1970) - Anche i falegnami vanno in paradiso. L'ultima favola del calcio italiano cresce in Brianza, lontano dai vivai delle grandi squadre e vicino ai mobili che sono core-activity dell'economia circostante. Fa il magazziniere e intanto gioca nell'Oggiono, nel Verano Brianza, nella Caratese, frequentando campi dove è già un segno distintivo salvare le caviglie (e ciampicare, magari, quelle altrui). Di giorno il lavoro, di sera gli allenamenti in una squadra di bassa serie D. Poi nell'estate 1992 c'è la svolta: lo vuole il Lecco di Claudio Gentile, che lo acquista, ma lo presta quasi subito alla Juve che ha bisogno di giocatori per rimpolpare le fila in una tournèe estiva e ne approfitta per fargli tre partite di provino. Piace a Trapattoni e la sua fortuna è fatta. Nel gran ballo della serie A, con gli anni, cambia look (diventando sempre più "lurido") e migliora le sue competenze tecniche, giostrando al meglio in tutti i ruoli della difesa. Fra Juve, Fiorentina, Espanyol e Arezzo, più di 350 gare di A e B, e 10 presenze in Nazionale. Diventa allenatore, ma alla Pistoiese gli bastano 19 minuti della prima partita per farsi espellere per proteste: forse non è la sua carriera. I tifosi juventini lo ricordano con affetto e con molta ammirazione per la sua carriera e per una partita di Champions a Bucarest dove fu l'unico a resistere 90' senza calzamaglia nonostante una temperatura che avrebbe fatto morire di freddo molti orsi polari. Roba da uomini duri.

3 - Claudio Gentile (1953) - Nasce a Tripoli, figlio di emigrati sulla "quarta sponda" e qui tira i primi calci (al pallone e non solo) giocando nei vicoli con altri italiani e molti arabi: una scuola calcio delle più dure che ne stimola grinta e aggressività. Quando la famiglia torna in Italia per sfuggire alle persecuzioni agli stranieri legate all'avvento al potere di Gheddafi, si trapianta nel Comasco e comincia la trafila. Una stagione al Varese convince la Juventus ad acquistarlo nel 1973 e nasce una leggenda. I momenti salienti li conoscono tutti: in 15 anni da professionista (prima terzino sinistro, poi sulla destra) mette la museruola a tutti gli attaccanti più forti del mondo. Ai mondiali '82 si intesta una bella fetta di Coppa marcando Maradona e Zico col sadismo di uno schiavista dell'Alabama. Al culmine della carriera rivela anche una discreta propensione alla spinta. Gli anni però passano e Boniperti non gli perdonerà di avere chiesto un aumento del contratto tornando dalla Spagna. Nel 1984 lascia il bianconero e passa alla Fiorentina. Tre stagioni, poi Agroppi decide che è tempo di lanciare i giovani e lo epura. Non vuole finire così e accetta sei mesi da libero al Piacenza, neopromosso in B: spacca gli ultimi menischi, contribuisce alla salvezza e poi lascia. Diventa anche allenatore, ma è meglio ricordarlo da terzino. Forse il più grande, nel suo ruolo.


2 - Hugo de Leon (1958) - "El patriarca", "El Patròn", "El Hugo" o più semplicemente "El senor", il signore. Hugo de Leon, per 11 anni nazionale dell'Uruguay, dal 1979 al 1990, è stato un difensore uruguagio atipico, nel senso che non aveva bisogno di picchiare più di tanto per farsi rispettare. Non che fosse un'educanda, intendiamoci, ma per almeno dieci anni è stato il più europeo dei giocatori sudamericani, e forse il suo unico torto da giocatore è stato quello di avere aspettato troppo per trasferirsi in Europa, arrivando al Logrones a 30 anni, quando ormai si era già trasformato in difensore centrale.
Ma in Sudamerica era già un mito: icona del Nacional di Montevideo, con cui vince la Libertadores nel 1980, nel 1981 si trasferisce al Gremio e resta in Brasile fino al 1987, vincendo coi nerazzurri un'altra Libertadores e una intercontinentale nel 1983 e diventando idolo dei tifosi. Ancora oggi è voce rispettata in ogni decisione importante per il club. Tocca anche Corinthians e Santos, poi dopo il cameo spagnolo rimpatria in Uruguay e guida di nuovo il Nacional a un'altra doppietta: Libertadores e intercontinentale nel 1988. Si concede uno scudetto in Argentina, col River Plate, poi chiude in Nazionale, come libero, ai Mondiali 1990. Gioca ancora fino al 1993, in Giappone e poi per l'ultima volta col suo Nacional, con cui, per buona misura, chiude in bellezza con l'ultimo titolo di campione nazionale. Finito col calcio giocato, diventa allenatore e poi si dà alla politica, entrando nel "Partido Colorado" e arrivando fino a concorrere per la vicepresidenza della Repubblica alle elezioni 2009. Misconosciuto in Europa, è stato un grande.

1 - Pasquale Bruno (1962) - "La simulazione dell'attaccante non mi offende, ma la considero un fatto sleale. Posso accettare che un attaccante si butti a terra simulando una volta, posso sopportare che lo faccia due volte. In compenso, se lo fa per tre volte, state certi che alla terza con me non si rialzerà più". Anche per frasi come questa Pasquale Bruno, "O Animale", è a mio avviso l'emblema più autentico del ruolo del terzino marcatore.
Pugliese di San Donato di Lecce comincia la carriera nei giallorossi salentini nel 1979. Poi approda in A al Como e si segnala come difensore implacabile. Lo nota la Juve che lo inserisce nel gruppo nell'estate 1987; resta in squadra fino al 1990, segnalandosi per il suo stile di gioco sopra le righe. Ma la sua immagine di gladiatore è legata al passaggio al Torino, dove i tifosi prima lo detestano per il suo passato juventino, poi se ne innamorano. Entra nella storia granata e in vetta a questa classifica il 17 novembre 1991. Si gioca il derby e la partita, terminata 1-0 per la Juve, verrà ricordata per l'espulsione e la reazione di Bruno che alcuni giornali definiranno «isterica».Già ammonito dopo 5 minuti di gioco, Bruno rifila una gomitata a Casiraghi, inducendo l'arbitro Ceccarini ad espellerlo al 16º del primo tempo per somma di ammonizioni. "O Animale" perde la testa e tenta di aggredire l'arbitro, non riuscendoci grazie al tempestivo intervento di Lentini, aiutato da Cravero, Casagrande e altri componenti della panchina granata. Ceccarini e i due guardalinee, temendo di incontrarlo fuori dallo stadio, lasceranno il "Delle Alpi" scortati dalla polizia. Viene squalificato inizialmente per otto giornate, poi ridotte a cinque.
Dopo due stagioni di falli, liti, marcature a uomo che più a uomo non si può, cala di rendimento nel 1992-93 e viene lasciato libero dopo l'ennesimo episodio picaresco, con il romeno del Brescia Raducioiu. Passa poi alla Fiorentina e quindi al Lecce, ma progressivamente diventa sempre più una caricatura di se stesso. Riesce comunque a firmare un contratto con la squadra scozzese degli Hearts dove gioca per due stagioni (qui protagonista di uno storico match coi Rangers concluso in 7 contro 11. Ovviamente fu il primo espulso). Passa infine al Wigan, in B inglese, ma gioca solo 45' in tutto l'anno. Nel 2002, da punta, disputa qualche partita col Delta San Donato, squadra di terza categoria, della sua città natale, allenata dal fratello Gigi e diretta dal padre Pino. "Senza pallone non ci so stare: il contatto fisico in tackle è un'ebbrezza di cui non so fare a meno". Forse c'è un pizzico di "O Animale" in ogni appassionato di calcio

(2 - continua)

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